QUELLA SCHEGGIA NAZISTA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

Con una recente Ordinanza (n. 13217/21) la Suprema Corte di Cassazione si è espressa in merito al concetto di alienazione parentale (nella sentenza della Corte di Appello, annullata con rinvio, era citata la cosiddetta sindrome della madre malevola, che è un corollario della vecchia PAS, non più utilizzabile nelle CTU perché dichiarata priva di basi scientifiche dal Ministro della Salute nel 2012 e il cui uso nei processi è già stato condannato dalla Cassazione nel 2013) parlando (pag. 10) di una “inammissibile valutazione di tätertyp“. Ne ha dato notizia per prima l’agenzia di stampa DiRE.

Naturalmente, anche su questa ordinanza sono partiti, col solito fastidioso stridio, i grilli parlanti della psicologia giuridica (la Cassazione voleva dire questo, no voleva dire quest’altro, ecc), sino addirittura ad affermare in un post di non conoscere la sindrome della madre malevola; post poi rilanciato da uno dei parrucconi della psicologia giuridica. Uno che nel 2010 ha usato proprio questa espressione in una relazione specialistica giurata, redatta in favore del padre di una bambina, da lei accusato di abusi sessuali. Espressione usata per stigmatizzare la madre della bambina, che lui non conosceva, non aveva sottoposto a visita specialistica, non aveva mai visto in faccia; ai limiti del falso ideologico. Loro possono.

Ma non è delle loro facoltà mnemoniche precarie che voglio occuparmi; mi ha incuriosito questo concetto evidenziato dalla Cassazione, e cioè la valutazione di tätertyp. Concetto squisitamente giuridico, quindi fuori delle mie competenze; ma la curiosità mi ha spinto a cercare di capirci qualcosa di più.

La prima cosa che è emersa è che si tratta di un concetto del codice penale della Germania nazista del 1940; la Suprema Corte di Cassazione ha quindi rilevato, in una sentenza di una Corte di Appello di un paese democratico come l’Italia, la presenza di una valutazione di tätertyp, valutazione di stampo nazista, ritenuta, giustamente, non ammissibile in un procedimento giudiziario.

Ma in cosa consiste questa inammissibile valutazione di tätertyp, ovvero del diritto penale d’autore? A quel che ho letto, nel sanzionare una persona per quello che è non per quello che fa; come scrive la D.ssa Eva Stanig: «si parla di diritto penale del nemico o di diritto penale d’autore, formule equivalenti che evocano il fatto che ciò che è punibile non è più il reato ma il reo e, nello specifico, per “quello che è” non per “quello che fa”».

L’Ordinanza della Cassazione è stata ampiamente ripresa dai media, Sole 24 Ore caso, Corriere della Sera qui e qui, Il Fatto Quotidiano, Huffington Post ; qui una mia breve nota.

Oltretutto, chiedo conferma agli avvocati, una tale concezione è contraria all’art. 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.“); uguaglianza di fronte alla legge che evidentemente non vale per le madri, ritenute pre-giudizialmente alienanti, simbiotiche, malevoli, ecc., come da immagine seguente.

A questo punto che accade? Non lo so, non sono un giudice, quindi non posso sapere se i giudici terrano conto di questa Ordinanza della Cassazione o se continueranno a stigmatizzare le madri e sanzionarle per quello che sono e non per quello che fanno, secondo il non ammissibile modello nazista del tätertyp; anche perché di quello di cui sono accusate, e cioè di aver manipolato i figli contro l’altro genitore non vi è mai prova alcuna, come riporto in questo e-book; e allora è molto più semplice sanzionarle in quanto madri. Lo strumento per giungere a questo è la CTU, disposta, in violazione della legge, proprio per sopperire alla mancanza di prove della presunta manipolazione psicologica del minore che causerebbe il rifiuto dello stesso di frequentare l’altro genitore.

Di quel che faranno i CTU e gli psicologi giuridici francamente non me ne importa più di tanto; stanno dando uno spettacolo penoso di se stessi nei social, rinnegando tutto quello che hanno sostenuto sino a ieri. Vanno denunciati in massa per i danni che hanno arrecato a madri e bambini e alla società tutta che a causa loro si ritroverà con adulti con problemi psichiatrici di varia natura, per essere stati allontanati dal genitore protettivo ed esposti alla violenza e agli abusi sessuali dell’altro genitore.

Una cosa è certa: la scheggia nazista che ha inceppato il diritto di famiglia è proprio la psicologia giuridica.

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SENZA TITOLO

L’immagine che apre questa nota è lo screenshot di un lungo post su Facebook; ho cancellato riferimenti e nomi di persone.

Il post è scritto da una ragazza rinchiusa in una comunità perché rifiuta di incontrare il padre, da lei accusato di violenza e di abusi sessuali; in altre comunità sono stati rinchiusi i fratelli, sempre per lo stesso motivo, accuse al padre di violenza e abusi sessuali.
Si tratta, a mio modesto parere, di un chiaro abuso giudiziario; sia pure nella presunzione, non supportata da prova alcuna, che la madre di questi ragazzi sia riuscita a manipolarli tutti e quattro, che senso ha rinchiudere i ragazzi?

Sulla base di quale norma i giudici minorili e delle separazioni assumono decisioni così gravi? Per quanto a me noto, non esistono norme che lo consentano, se non quando il minore sia «moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui» (art. 403 cc); in assenza quindi di tali situazioni ogni allontanamento, per iperbole cattura, è arbitario. E rinchiudere i minori in comunità è a tutti gli effetti una carcerazione preventiva.

Io non vedo molte differenze con i giudici egiziani che da oltre un anno tengono in carcerazione preventiva un ricercatore universitario, e i tanti altri dissidenti del regime.

Il plagio, ancora questa assurdità; eppure la Corte Costituzionale nel 1981 è stata chiara: «Presupponendo la natura psichica dell’azione plagiante è chiaro che questa, per raggiungere l’effetto di porre la vittima in stato di totale soggezione, dovrebbe essere esercitata da persona che possiede una vigoria psichica capace di compiere un siffatto risultato. Non esistono però elementi o modalità per potere accertare queste particolari ed eccezionali qualità né è possibile ricorrere ad accertamenti di cui all’art. 314 c.p.p.. non essendo ammesse nel nostro ordinamento perizie sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche. Né è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze, che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici l’asservimento totale di una persona».

Chi ancora oggi parla di plagio o pensa che bambini che accusano un genitore di violenza o di abusi sessuali siano stati plagiati dall’altro genitore, parla e pensa contro i diritti costituzionali di ciascuno.

Come la ragazza dimostra nel suo post, chi cerca di plagiarla sono proprio i cosiddetti specialisti, i consulenti tecnici dei giudici; e come il post dimostra, nonostante la loro autorità non riescono a plagiarla.

La ragazza, che mostra con il suo post molta maggiore maturità e intelligenza critica dei cosiddeti esperti, conclude con una citazione di Dietrich Bonhoeffer, probabilmente del tutto sconosciuto ai cosiddetti esperti e ai suoi carcerieri, le cui conoscenze non vanno sicuramente oltre Gardner e i suoi accoliti. Bonhoeffer, teologo e uno dei massimi filosofi del ‘900, fu oppositore del nazismo, rinchiuso in carcere per le sue idee e giustiziato. Il nazismo rinchiudeva i dissidenti e gli oppositori; il patriarcato continua a rinchiudere i dissidenti e gli oppositori. Il vero pericolo per i minori sono il patriarcato e i suoi adepti.

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LA MUTA MASCHILISTA

Riprendo un vecchio post da un altro mio blog.

Nella sua monumentale opera, Massa e potere, Elias Canetti definisce la “muta” come “forma di eccitazione collettiva“; la muta, nell’analisi di Canetti, rappresenta la più antica unità di aggregazione dei singoli, dalla quale poi deriva la massa. E aggiunge:

Presso orde di numero limitato, che vagano in gruppi di dieci o venti uomini, la muta è la forma di eccitazione collettiva che si ritrova ovunque“.
La muta è un gruppo di uomini eccitati“.
La muta è la più antica e la più limitata forma di massa umana, quella che precedette tutte le masse nel moderno significato della parola. Essa si manifesta in parecchi modi, ed è sempre nettamente percepibile. La sua attività attraverso decine di millenni è stata così intensa da lasciare tracce ovunque, e perfino nella nostra epoca, profondamente diversa dalle precedenti, sopravvivono numerose forme che procedono direttamente da essa“.
La muta più naturale e più genuina è quella da cui deriva propriamente la nostra parola: la muta di caccia. La seconda forma di muta, che ha molto in comune con la muta di caccia e per alcuni aspetti coincide con essa, è la “muta di guerra”. La muta di guerra presuppone l’esistenza di un’altra muta di uomini contro i quali è diretta: essa configura l’avversario come un’altra muta, anche se in realtà in quel momento l’altra muta non esiste. Nella sua più antica forma, essa perseguita spesso una singola vittima, oggetto della sua vendetta“.

Uso l’espressione «muta» per uomini anziché per animali, poiché designa nel modo migliore la collettività del movimento frettoloso e la meta concreta dinanzi agli occhi di tutti coloro che vi sono coinvolti. La muta vuole una preda: vuole il suo sangue e la sua morte. Deve inseguirla veloce e senza lasciarsi distrarre, con astuzia e tenacia, per afferrarla. La muta si incoraggia abbaiando tutta insieme. Non si deve sottovalutare il significato di questo clamore, in cui si mescolano le voci dei singoli animali. È un clamore che può diminuire e di nuovo aumentare; ma non tace: esso contiene l’attacco“.
La scelta dell’espressione «muta» per questa primordiale e limitata forma di massa, dovrebbe ricordare che anch’essa trae origine presso gli uomini da un esempio animalesco: il branco di animali che cacciano insieme“.

Comportamenti di ‘muta’ sono le centinaia di falsi profili Facebook, pagine clonate e blog dal nome clonato, gestiti da maschilisti che sistematicamente fanno disinformazione sulla violenza di genere.
Anche un idiota sa che il termine violenza di genere significa violenza contro la donna non per questioni legate a fatti di criminalità ordinaria (es. rapine, scippi, ecc.) ma per il fatto stesso che si tratta di una donna: violenza agita dal padre contro la figlia, dal marito contro la moglie, dal fidanzato contro la fidanzata, o, quando la famiglia si separa, dall’uomo contro la ex-partner; o da gruppi di uomini che si mettono a caccia di una donna per stuprarla e poi ucciderla.
La disinformazione attuata dalla muta maschilista giunge al punto di negare l’esistenza della violenza di genere fino a manipolare i dati ISTAT per cercare di dimostrare che addirittura è maggiore la violenza delle donne sugli uomini.
La muta maschilista ha le sue parole d’ordine; una di queste è ‘nazifemminismo’. L’uso di questo termine sancisce l’appartenenza alla muta maschilista.
La muta maschilista interviene massicciamente per negare la violenza di genere; questo suo intervenire in massa è identico all’abbaiare furioso delle mute dei cani da caccia poiché identico ne è lo scopo, quello di incoraggiarsi l’un l’altro.
La muta maschilista vuole la sua preda, la sottomissione della donna ai suoi voleri. La muta maschilista non accetta la donna emancipata, disinibita, realizzata.
La muta maschilista vuole il sangue della donna e la sua morte; disinformare e mistificare la violenza di genere equivale a incoraggiarla, incitarla, istigarla.
La muta maschilista è complice, se non mandante, dei femminicidi. Il suo abbaiare tutta insieme contiene l’attacco contro la donna, fornisce all’assassino il coraggio e diminuisce con la morte della donna.
Dopo ogni femminicidio la muta riprende ad abbaiare con clamore.

Elias Canetti (1960), Massa e potere, Adelphi Edizioni, 1981.

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DEL COME LA PSICOLOGIA GIURIDICA HA STRAVOLTO LA PSICOLOGIA

E ha stravolto anche la mente degli psicologi giuridici.

Mi sono imbattuto di recente nelle slide di una lezione tenuta da uno psicologo giuridico, uno dei firmatari delle varie carte della psicologia giuridica; quindi uno dei più eminenti. Titolo della lezione: “Lo stato dell’arte della CTU nelle separazioni giudiziali”.
In alcune di queste slide si fa cenno al conflitto di lealtà, un concetto ampiamente usato nelle CTU, anche se non c’entra nulla con l’oggetto della CTU.
Le riporto di seguito.

L’espressione “conflitto di lealtà” è stata coniata dalla teoria sistemico-relazionale della psichiatria negli anni ’50-’60 del 1900 per descrivere le modalità di funzionamento di alcune famiglie non separate, nelle quali c’era un componente, di solito un figlio, adulto, affetto da schizofrenia.

Ripeto, famiglie non separate e con un figlio adulto affetto da schizofrenia.
Le dinamiche disfunzionali descritte in queste famiglie (doppio legame, triangolo perverso, conflitto di lealtà, comunicazione paradossale, ecc) hanno la funzione di tenere unita la famiglia, di non farla giungere alla separazione. Si tratta, infatti, di dinamiche omeostatiche, utilizzate dalla famiglia per mantenere lo status quo, la famiglia unita anche se disfunzionale.
Ho già criticato questo uso anomalo del concetto di conflitto di lealtà, ma a ogni buon conto mi ripeto.

Il conflitto di lealtà descrive la situazione in cui viene a trovarsi il figlio intrappolato nel cosiddetto ‘triangolo perverso‘; quella cioè di mantenere cioè la lealtà verso entrambi i genitori.
Le famiglie con un figlio schizofrenico sono caratterizzate, dal punto di vista sistemico-relazionale, dall’apparente assenza di qualsiasi conflitto; il conflitto invece esiste ed è massiccio ma allo stesso tempo occulto, sommerso, negato dalla facciata di apparente accordo tra i genitori.
Proprio per questo si parla di triangolo perverso: la conflittualità tra i genitori è occulta, non manifesta, ma c’é; e all’interno di questo contesto di conflittualità inespressa ciascun genitore cerca l’alleanza del figlio (triangolazione). Tale ricerca di alleanza non è mai esplicitata ma sempre inespressa; nessuno dei due, cioè, chiede esplicitamente al figlio di allearsi con lui ma a un diverso livello comunicativo (extra-verbale, comunicazione paradossale, impliciti sottintesi, ecc) ciascuno chiede l’alleanza del figlio. Questo manda in confusione il figlio, sino a farlo ammalare di schizofrenia.

Se il conflitto tra i genitori da occulto diviene palese, manifesto, il conflitto stesso esplode, la famiglia va incontro alla separazione e le dinamiche disfunzionali descritte (doppio legame, triangolo perverso, conflitto di lealtà) svaniscono e cessano di esercitare effetti psichici deleteri sui figli, proteggendoli così dalla comparsa di disturbi mentali, tra cui la schizofrenia (ma anche anoressia mentale).

Nulla di tutto questo si ritrova nella definizione che gli psicologi giuridici danno di conflitto di lealtà; non solo, ma descrivono, con quella definizione, un qualcosa che proprio non esiste. Tra l’altro, nelle slide citate lo psicologo giuridico dando una sua definizione solipsistica fa riferimento al mondo interno del bambino, ignorando, evidentemente, l’assunto di base della teoria sistemico-relazionale cioè il concetto di ‘scatola nera’; vale a dire, nessuna inferenza sul mondo intrapsichico (la parte non osservabile della mente) ma solo l’esame dei processi osservabili, gli output, i comportamenti.

Il bambino che rifiuta la relazione con un genitore non vive alcun conflitto di lealtà; conflitto significa, infatti, venirsi a trovare combattuto tra due bisogni, due istanze contrastanti. Il bambino che rifiuta un genitore non vive affatto un conflitto, tanto meno di lealtà, perché tra i due genitori che si sono separati ne ha scelto uno col quale convivere e non sente bisogno alcuno di mostrare lealtà verso il genitore rifiutato.

Purtroppo, nei corsi di formazione per gli psicologi giuridici insegnano esattamente il contrario di ciò che ha dimostrato la ricerca psicologica e questo spiega gli errori che vengono commessi nelle CTU e i danni che gli psicologi giuridici arrecano a madri e bambini che subiscono violenza, quando non addirittura abusi sessuali incestuosi.

Può mai un bambino provare lealtà verso il genitore violento o abusante? Chiaramente no, e se non ha il bisogno di provare lealtà verso il genitore rifiutato non vive alcun conflitto di lealtà.

Chi obbliga questi bambini a vivere un conflitto di lealtà sono proprio gli psicologi giuridici, quando impongono loro di ‘amare’ il genitore odiato. Si tratta infatti di una prescrizione paradossale: “devi voler bene“; ma il volere, o non voler bene sono fatti spontanei, non possono essere esercitati a comando. Pertanto, è possibile voler bene a una persona alla quale non se ne vuole solo non obbedendo alla prescrizione di volerle bene, quella cioè di avere un comportamento spontaneo a comando.

È il classico paradosso del ‘sii spontaneo‘: se sono spontaneo perché mi è stato ordinato di essere spontaneo, non sono più spontaneo; posso essere spontaneo solo non essendo spontaneo, disobbedendo quindi alla prescrizione. Psicologi che danno tali prescrizioni dovrebbero essere banditi dalla professione.

Riepilogando:
1) Per conflitto di lealtà s’intende la condizione in cui viene a trovarsi il bambino in una famiglia disfunzionale, conflittuale ma che nega il conflitto, che riceve dai genitori messaggi contrastanti, di non alleanza a livello esplicito ma di alleanza a livello implicito.
2) Quando il conflitto esplode, si rende manifesto, la famiglia disfunzionale giunge alla separazione, il conflitto di lealtà cessa di esistere e di produrre i suoi effetti deleteri sulla psiche del bambino.
3) Il bambino che rifiuta la relazione con un genitore, per motivi attinenti, di solito, a violenza in famiglia o abusi sessuali incestuosi, non vive alcun conflitto di lealtà perchè non viene più a trovarsi combattuto tra due bisogni contrastanti. Il suo bisogno è unicamente quello di vivere serenamente la sua infanzia e la sua adolescenza. Infanzia e adolescenza che gli vengono rovinate proprio dagli psicologi giuridici e da una giustizia ormai incapace di fare giustizia. In questi processi infatti vengono assunte decisioni giudiziarie non sulla base dei fatti, delle prove, ma sulla base della interpretazione dei fatti così come rappresentati nelle CTU; e sulla base di quelli che i CTU ritengono che siano i bisogni dei bambini (la famigerata bigenitorialità). E lo ritengono non in base ai dati di realtà e alle reali dinamiche psicologiche osservate ma sulla base di quello che è stato loro insegnato/indottrinato nei corsi di formazione in psicologia giuridica. Il pregiudizio, cioè, che le madri sono vendicative (alienanti, malevoli, assorbenti, ecc) e i bambini non sono credibili in quanto alienati, colonizzati dai voleri degli adulti, influenzati (qualcuno ha parlato addirittura di onde dalle madri ai figli), ecc.
Non posso credere che uno psicologo non sappia riconoscere un narcisista manipolatore. Eppure nelle CTU si industriano per non riconoscerlo, per dargli la patente di brava persona, vessata dall’ex-partner vendicativo che ha manipolato i figli facendo loro credere che c’è stata violenza o abusi sessuali. Come se bambini e ragazzi non sappiano riconoscere da sé la violenza e gli abusi sessuali.
Fino a quando andrà avanti questo scempio?

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LO STRESS E GLI PSICOLOGI GIURIDICI

È, per convenzione, il primo giorno di un nuovo anno, e si dovrebbe evitare di polemizzare; ma non si può evitarlo quando si continuano a vedere le incoerenze di questa categoria di persone.

Eh sì, perché il tizio in questione, si sarà capito che è uno psicologo giuridico, proprio ieri, ultimo giorno di un anno funesto, per motivi non tutti attinenti la pandemia, se ne è venuto fuori col fatto che lo stress psicologico abbassa le difese immunitarie; ciò con un articolo pubblicato da un quotidano online.
Cita all’uopo una paio di studi, rispettivamente del 1991 e del 2002; vorrei informarlo comunque che ce ne sono anche di più recenti.

Vizi privati e pubbliche virtù.

In pubblico (articoli su giornali), difatti, questi soggetti si ammantano di scientificità e competenze; in privato (nelle consulenze tecniche di ufficio-CTU) non si preoccupano affatto dello stress psicologico, e quindi della caduta delle difese immunitarie, che provocano a madri e bambini appioppando loro l’alienazione parentale (o qualcuno dei tanti sinonimi, dalla madre malevola alla madre assorbente), strappando i figli alle madri, rinchiudendo i bambini nelle comunità per minori.

Strani soggetti, che non hanno nemmeno la capacità di assumersi la responsabilità dei propri comportamenti.
Da un canto si fanno vanto di organizzare convegni ECM sull’alienazione parentale.

Dall’altro si sentono denigrati quando qualcuno glielo fa notare e minacciano ritorsioni per un presunto danno all’immagine; perdonate, ma se siete voi stessi che danneggiate la vostra stessa immagine!!!

Niente, devono portarsi addosso un qualche stress remoto, forse una caduta dal seggiolone, che ha compromesso in maniera irrimediabile le loro capacità di ragionamento logico.

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ABUSI SESSUALI E TRIBUNALI

Lo screenshot a lato è una summa dello psicologico-giuridico-pensiero. Ho rimosso i nomi perché si tratta di gente molto sucettibile e, da quel versante, ho già ricevuto numerose diffide e preavvisi di querele, oltre a esposti all’Ordine dei Medici.

Naturalmente, a proposito di false accuse, il tutto si è rivelato solo fumo senza arrosto; ma infastidiscono, come le zecche.
Conta il peccato, quindi, non il peccatore.

Ritornando allo screenshot, si tratta di un dialogo ripreso da un profilo Facebook, nel quale uno psicologo giuridico, uno dei più noti, esterna la sua convinzione/teorema circa gli abusi sessuali.

Sono veri abusi sessuali solo quelli che non arrivano in tribunale“; ne discende, necessario corollario, che gli abusi sessuali che arrivano in tribunale, che vengono cioè denunciati, non sono veri abusi sessuali.
Come dire, gli omicidi veri esistono, eccome, sono quelli che non arrivano in tribunale.
E, seguendo la medesima logica, le rapine, i furti, le estorsioni, lo spaccio di droga, ecc, esistono ma sono veri solo quelli che non arrivano in tribunale.
Scotomizza, il tizio dello screenshot, che tribunali, giudici e processi esistono proprio per vagliare se quanto denunciato sia vero o sia falso; e che senza la pronuncia di un tribunale non si può affermare che quanto denunciato sia falso.
Ma tant’è, secondo la logica psicologico-giuridica tutto ciò che arriva in tribunale è falso; perché gli unici, autentici giudici sono proprio loro, gli psicologi giuridici; sono più giudici dei giudici, forse ultragiudici, alla Nietzsche.

Sento già arrivare l’obiezione: ma noi non affermiamo questo, diciamo che sono falsi solo gli abusi sessuali che arrivano in tribunale; si tratta quindi di una logica a validità limitata, vale solo per gli abusi sessuali. Ma perché questa predilezione per gli abusi sessuali? L’ho detto e scritto più volte: perché la psicologia giuridica è stata fondata da avvocati esperti nella difesa di soggetti accusati di presunti abusi sessuali; compito del difensore è difendere il suo cliente e quindi se trova un concetto utile alla difesa, ovviamente lo utilizza.
Ma da dove viene questa logica singolare?

«Per distinguere … le denunce vere da quelle false è sufficiente … verificare come si è comportata la madre. Se si è subito rivolta all’autorità giudiziaria o ai servizi sociali significa che gli abusi sono falsi».
Questa citazione, riportata nel libro “Rompere il silenzio”, di G.A. Coffari, ed. Laurana), è di un medico statunitense, quel Richard Alan Gardner inventore di malattie inesistenti. Ne ho già parlato qui.

Si tratta di quel Gardner, inventore della sindrome di alienazione genitoriale (PAS), dal quale gli psicologi giuridici dicono di aver preso le distanze, di non considerare più loro maestro, tanto che adesso parlano di alienazione parentale non più di PAS (anche Gardner di fronte alle critiche alla PAS iniziò a parlare di parental alienation); ma, come ho già scritto, se non è zuppa è panbagnato.
Purtroppo di PAS ne sono talmente impregnati da non rendersi nemmeno conto della illogicità di quello che sostengono.

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NEUROSCIENZE (?) IN TRIBUNALE

Il riferimento è alle metodiche cosiddette di svelamento della menzogna, alcune delle quali conosciute come macchina della verità.
Corre l’obbligo, preliminarmente, di precisare che queste cosiddette metodiche, dette anche di lie detection, non hanno nulla di scentifico ma, riprendendo il titolo di un articolo del 2007, si tratta, puramente e semplicemente, di ciarlatanerie.

Riporto brevemente dall’abstract: «Un rivelatore di bugie che può rivelare la menzogna e l’inganno, in qualche modo automatico e perfettamente affidabile, è una vecchia idea che abbiamo spesso incontrato nei libri di fantascienza e fumetti. Tutto questo va molto bene. È quando le macchine che si affermano essere rilevatori di bugie appaiono nel contesto di indagini penali o applicazioni di sicurezza che dobbiamo essere preoccupati

E tra le conclusioni scrivono: «Ciarlataneria, frode, pregiudizio e superstizione sono sempre stati con noi. Se guardiamo indietro nella storia e lo confrontiamo con quello che vediamo oggi c’è poco che ci dà la speranza che il progresso nella scienza diminuisca la quantità di sciocchezze superstiziose che vediamo intorno a noi. L’astrologia, per esempio, sembra essere più popolare che mai e totalmente inalterata nonostante le tante volte che gli astronomi spieghino che è una completa assurdità. Siamo quindi un po’ pessimisti circa la possibilità di rimuovere efficientemente il ciarlatanismo della scienza dal linguaggio forense

Chi ne ha voglia si legga tutto l’articolo.

Oggetto di questo post è una di queste metodiche, alla quale ha dato ampio risalto il quotidiano Avvenire del 30 luglio 2020.

Come si legge, tale metodica si chiama aIAT.
Ho incrociato per la prima volta questo test nel 2011, nel corso di una CTU per l’affidamento di una bambina che rifiutava il padre accusandolo di abusi sessuali; la vicenda penale era stata archiviata grazie anche a questo test che aveva rilevato quanto segue, riporto letteralmente dalla perizia di parte: «Ciò consente di ecludere, nel cervello del sig. xxx, la presenza di una traccia mnestica legata all’evento ABUSO
La bambina però era credibile e il padre nel corso della CTU si lasciò sfuggire una frase che nella sostanza confermava gli abusi sessuali; la bambina era stata giudicata non attendibile sulla base della bufala dell’amnesia infantile, concetto già da me smentito. Questo mi insospettì e perciò approfondii la faccenda.

Il test aIAT deriva da una metodica messa a punto negli USA che si chiama IAT (Implicit Association Test). Si tratta di un test utilizzato in psicologia sociale, per indagare pregiudizi impliciti di genere, di razza, ecc. Qui si può leggere qualcosa di più.
Il test aIAT (autobiographic Implicit Association Test) presume di poter svelare se il soggetto testato sta dicendo la verità oppure sta mentendo, in relazione a determinati fatti.

Senza portarla per le lunghe, riporto dal testo L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie, a cura di Cassano G, Corder P e Grimaldi I, Edizioni Maggioli: «La critica più pregnante a questo test viene dal contesto giudiziario, per la precisione da una memoria dei PM nel corso del processo Franzoni; il passo si trova alla pag. 37 del documento citato, nota 56. Si tratta di una vera e propria pietra tombale posta dai magistrati circa l’uso giudiziario del test aIAT, finalizzato a scagionare l’imputato dalle accuse; la falsa scienza non può trovare posto in tribunale

Scrissero infatti i giudici:
«Nella propria memoria i PM,dopo aver ricordato che lo IAT è un formato procedurale di indagine cognitiva (ossia un contenitore) utilizzabile per indagare diversi tipi di concetti psicologi e che ad Annamaria FRANZONI era stata somministrata una nuova applicazione dello IAT, ideata nel 2008 proprio da Sartori, denominata a‐IAT autobiographical IAT) o f‐IAT (forensic IAT), contestavano che la validazione scientifica dello IAT potesse automaticamente essere estesa alla versione ideata da Sartori e, comunque, la possibilità di utilizzo dello IAT in ambito forense, citando anche le obiezioni formulate da una ricercatrice, Valentina Prati, già allieva di Sartori, relative alla facilità di falsificazione dei dati da parte di un utente istruito

La D.ssa Valentina Prati è coautrice di un articolo che porta una critica radicale proprio all’affidabilità del test aIAT.

Ecco l’abstract: «Il test autobiografico Implicit Association Test (aIAT) è stato recentemente introdotto in questa rivista come un nuovo e promettente strumento di rilevamento delle bugie. La relazione iniziale ha rilevato una precisione nel determinare quale dei due eventi autobiografici fosse vera. È stato suggerito che l’aIAT, a differenza di altri test di rilevamento delle bugie, è resistente ai tentativi di ingannarlo. Abbiamo indagato se i partecipanti possono modificare strategicamente le loro prestazioni sull’aIAT. L’esperimento 1 ha dimostrato che i partecipanti colpevoli di un finto furto sono stati in grado di ottenere un risultato di prova innocente. Altri due esperimenti hanno dimostrato che i partecipanti colpevoli possono falsificare l’aIAT senza precedenti esperienza con l’aIATand quando viene fissata una scadenza di risposta. L’aIAT è soggetto alle stesse carenze di altri test di rilevamento delle bugie

Nella sostanza, e semplificando, il test, computerizzato, propone al soggetto una serie di domande, alcune assolutamente vere (es. dati anagrafici) e altre che possono essere vere ma possono essere false. La presunzione alla base del test è che la risposta alle domande assolutamente vere ha un tempo di latenza brevissimo, quasi instantaneo (es., se ci chiedono la nostra data di nascita rispondiamo senza esitazione) mentre se si cerca di mentire alle altre domande (che possono riguardare fatti oggetto di indagine penale) la risposta può avere un tempo di latenza lievemente più lungo, dell’ordine dei millisecondi.
Parafrasando, le bugie (che hanno le gambe corte) hanno però tempi di risposta più lunghi.

Il computer è in grado di calcolare questo scarto nei tempi di risposta e dirci se il soggetto ha dato una risposta falsa ad alcune domande, cioè se ha mentito.
Fin qui tutto normale; ma se il soggetto anche alle domande assolutamente vere risponde con un minimo ritardo il computer non registra alcuno scarto e quindi sentenzia che anche alle domande critiche il soggetto ha risposto sinceramente, cioè non ha mentito.
Il processo penale si può basare su queste autentiche cazzate? Non sarebbe un processo ma una metafora di processo, tanto per citare un concetto caro a un amante di metafore.

Ma, al di là delle considerazioni scientifiche e giuridiche, è particolarmente emblematico che il test aIAT sia stato smascherato da alcuni blog di psicologi, come in questo e questo.

Naturalmente, ritornando all’articolo dell’Avvenire, possiamo certo gioire che la Giustizia abbia riconosciuto l’innocenza di un presunto pedofilo, ma se a quella sentenza la giustizia è pervenuta utilizzando la falsa scienza, credo ci sia poco da gioire.
E certi giornalisti, di certi giornali, dovrebbero informarsi maggioramente prima di disinformare. Se può essere complicato giungere agli articoli scientifici o alle sentenze giudiziarie, è estremamente semplice trovare in rete gli articoli dei blog; se ce l’ho fatta io …

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ADESSO È DIVENUTA UNA METAFORA

Sì, in una recente intervista sul quotidiano Avvenire, il noto avvocato, ormai rimasto come l’ultimo dei giapponesi a difendere la PAS, afferma che la sindrome di alienazione genitoriale, o alienazione parentale, è una metafora. Cosa significhi questo, lo sa solo lui.

Di certo non parlava di metafora ma di grave malattia che colpiva donne (solo quelle protettive verso i figli) e bambini (solo quelli che rifiutavano il rapporto con il padre) nel libro del 1997; né parlava di metafora nelle riedizioni del medesimo del 1983, e del 2007 ma anche in altri scritti, come in questo che risale al 2015, appena cinque anni fa.

Né parlava di metafora quando ha inviato la sua squadra di disinformatori a stalkerizzare l’ICD-11; abbiamo tutti gli screenshot e sappiamo di cosa stiamo parlando.

Adesso che si trova, usando una metafora, con le spalle al muro, se ne viene fuori con la favoletta che la PAS sarebbe solo una metafora. Egregio avvocato, ma ci fa o ci sta? O crede davvero di essere l’unico essere pensante al mondo e che tutti gli altri siano degli allocchi che pendono dalle sue labbra?
Pensavo che nelle CTU psicologico-psichiatriche si dovessero utilizzare concetti scientifici, evidentemente mi sbagliavo, mi sono sempre sbagliato; pare vadano bene anche le metafore. Secondo questo illustre avvocato, pertanto, le sentenze giudiziarie basate sulla metafora della PAS sarebbero sentenze metaforiche; e pure i giudici che emettono quelle sentenze sarebbero, evidentemente, giudici metaforici.

Così come sono metaforici, evidentemente, i tanti convegni sulla metafora dell’alienazione parentale, organizzati in ogni parte d’Italia; è tutta una metafora. La stessa psicologia giuridica è una metafora, gli psicolgi giuridici sono metafore.

Insomma, con tutto il rispetto, tutta una gran presa per … metafora, metaforicamente parlando, ovviamente. Ma che vadano tutti a … quel paese, sempre metaforicamente parlando.
Tutto nasce dal vano tentativo di difendersi dalle critiche al famoso memorandum dei cento intellettuali, poi divenuti centotrentuno, in fila per centotrenta col resto di uno.
E sì, perchè ce n’è uno, per ora, che pur avendo firmato, entrambe le versioni, davanti al giudice sostiene di non essere stato lui ad avere firmato (avrà firmato a sua insaputa? ormai va di moda).
Insomma, cominciano le defezioni; staremo a vedere, chi vivrà vedrà (e in tempi di pandemia non v’è pensiero più adatto all’uopo).
E proprio a futura memoria propongo questi appunti che potrebbero tornare utili.

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SMEMORANDUM

Ovvero: il memorandum degli smemorati.

È comparso di recente, sul quotidiano “Il Dubbio”, lo scritto di un avvocato dal titolo “L’affidamento e la sindrome dell’alienazione genitoriale”, sotto la rubrica Epistemologia sociale.
Parlare, ancora, di sindrome di alienazione genitoriale, ampiamente screditata a livello della comunità scentifica internazionale (quella dei DSM e dell’ICD, per intenderci) e accostarla all’epistemologia è un vero e proprio ossimoro.

Memorandum, ovvero promemoria, cioè breve e sintetico scritto per ricordare talune cose e che serve più a chi lo scrive e lo firma che a chi dovrebbe leggerlo; leggerlo poi per farne cosa, se serve solo a loro?

Ecco un vero Memorandum contro l’alienazione parentale, cioè i punti essenziali da tenere a mente.

MEMORANDUM CONTRO IL CONCETTO DI ALIENAZIONE PARENTALE
1) Il concetto di alienazione parentale, in passato PAS, è solo una strategia processuale per difendere i genitori accusati di violenza in famiglia o di abusi sessuali incestuosi, non altrimenti difendibili.
2) Gardner, l’inventore di questo concetto, pubblicò il suo articolo del 1985 su una rivista di opinioni e non su una rivista scientifica.
3) La psichiatria accademica statunitense sin dal 1985 ha bollato tale concetto come scienza spazzatura.
4) Il mondo giuridico statunitense ha più volte sottolineato che tale concetto pseudo-scientifico non va usato in Tribunale perché è una minaccia per l’integrità del sistema della giustizia penale; grazie a questo concetto vengono assolti genitori violenti o pedofili.
5) Il sostegno a tale concetto lo si comprende seguendo la pista del denaro; consente infatti agli psicologi giuridici di fare molti soldi con poco sforzo. Le CTU sono infatti già scritte, basta cambiare i nomi e sono pronte.

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DI COME LA PSICOLOGIA GIURIDICA SI FA COMPLICE DEGLI ABUSI SESSUALI SUI MINORI

Primo esempio.
«Va osservato che i fatti ipotizzati come reato nella vicenda in esame riguardano eventi avvenuti quando la bambina aveva un’età compresa tra uno e due anni e sette mesi, localizzandosi quindi all’interno di una finestra temporale nella quale agisce un fenomeno denominato ‘amnesia infantile’ … Questa selettiva incapacità a ricordare eventi esperiti nella finestra temporale compresa tra 0 e 5 anni viene chiamata ‘amnesia infantile’
».

Questa dell’amnesia infantile è un’autentica bufala, presa però per oro colato dai giudici.
In primo luogo il concetto di amnesia infantile, introdotto da Freud, riguarda la difficoltà che tutti noi abbiamo da adulti a ricordare alcuni episodi della nostra infanzia, come spiego qui. Non riguarda i ricordi dei bambini.
In secondo luogo non ha senso parlare di amnesia quando i bambini affermano di ricordare eventi che risalgono ad alcuni mesi o a qualche anno prima; si potrà dire che i ricordi sono errati, non corrispondono alla realtà, ma non che il bambino che ha questi ricordi soffra di amnesia. Chi soffre di amnesia non ha alcun ricordo; e anche di fronte a questa proposizione palesemente illogica i giudici abozzano.

Il perito, nel caso surriportato, ha poi corredato la sua relazione con un grafico che è un autentico falso scientifico, come illustrato nel documento citato.

Questo portò, ovviamente, all’archiviazione del procedimento penale a carico del padre della bambina, all’affido condiviso, al rifiuto della figlia di frequentare il padre, all’accusa di PAS nei confronti della madre, alla psicoterapia obbligatoria, agli incontri protetti, ecc.

Nella valutazione della capacità di testimoniare del minore vittima di abusi sessuali il perito incaricato deve limitarsi, come prevede la legge, a valutare l’idoneità psico-fisica del minore a rendere testimonianza sui fatti di cui riferisce, senza introdurre elementi fuorvianti, a maggior ragione quando gli stessi sono privi di obiettività e validità scientifica. La valutazione dell’idoneità mentale a testimoniare (art. 196 cpp), della capacità a rendere testimonianza, ovvero di valutare “se le dichiarazioni, le confessioni, le ammissioni, le accuse di quel soggetto siano o meno espressione di un funzionamento mentale alterato da patologia psichiatrica o da un disturbo della sfera cognitiva e/o affettivo-relazionale che abbiamo negativamente interferito sulla fissazione dell’evento e incidano sulla rievocazione dello stesso” (Fornari), poggia su elementi scientifici obiettivi (colloquio clinico, valutazioni testistiche, ecc.) che qualora non rispondenti a rigorosi criteri di scientificità e obiettività possono essere confutati dalle parti.
Quella sulla credibilità o non credibilità del testimone è una valutazione soggettiva che il perito non deve fare perché sganciata da elementi scientifici obiettivi e come tale non confutabile in maniera obiettiva; viene a essere una pura e semplice petizione di principio: “ritengo che il/la testimone non sia credibile”. Su che basi un perito può esprimere un giudizio simile? Certo non su basi obiettive.

E siamo, come al solito quando entrano in campo gli psicologi giuridici, all’inversione dell’onere della prova: io dall’alto della mia scienza dichiaro che il testimone non è credibile; dimostra tu il contrario.
La credibilità, o meno, del testimone non è di pertinenza del perito, ma è di unica ed esclusiva competenza del giudice che forma il suo convincimento nel corso del dibattimento.
Il perito non deve esprimersi sul contenuto della testimonianza, e quindi della credibilità o meno del testimone, ma deve semplicemente dire se il minore ha capacità di testimoniare o se le sue dichiarazioni siano inficiate da problemi di ordine psicopatologico, quali disturbi del pensiero, dell’affettività, dell’ideazione, dell’intellignza, dell’ideazione, della volontà, ecc. L’espressione ‘credibilità psicologica’ non ha senso, è priva di senso logico poiché il credere o il non credere pertiene al mondo religioso non al mondo della psicologia.

Secondo esempio.
«La minore (omissis) non presenta quadri patologici, disturbi dello sviluppo della personalità o disarmonie tali da impedirle di poter riferire circa fatti di cui è a conoscenza. Relativamente peraltro ai fatti oggetto del presente procedimento, vi sono invece consistenti, marcate perplessità, dubbi, in ordine alla possibilità che la minore possa fornire una versione dei fatti aderente alla realtà, in ragione del considerevole ed elevato numero di elementi di interferenza, manipolazione, condizionamento ed influenzamento intervenuti».

Perplessità, dubbi sono dati soggettivi, impressioni del perito non supportate da elementi obiettivi od obiettivabili; il quesito, tra l’altro, chiedeva al perito di esprimersi solo in ordine all’idoneità psico-fisica della minore a rendere testimonianza e non altro. Ovviamente il procedimento è stato archiviato; questa ragazza, adesso maggiorenne, non ha avuto giustizia. E di queste perizie, per così dire, ‘impressionistiche’ ne ho lette molte; come nel caso seguente.

Terzo esempio.
«… pur possedendo (la minore) caratteristiche che la renderebbero capace di testimoniare su fatti autobiografici occorsi dopo l’età della prima infanzia, le dichiarazioni rese alla madre appaiono, sulla base delle valutazioni concernenti le caratteristiche contestuali e storiche, cariche di influenze motivazionali e suggestive che possono aver agito, esplicitamente ed implicitamente, internamente in lei, influenzando la costruzione della testimonianza. In conseguenza la credibilità clinica della testimonianza resa appare poco sostenibile, così la plausibilità della narrazione».

Quarto esempio.
«… si conclude che l’audizione fornita dalla minore (omissis) in data (omissis) presenta caratteristiche compatibili con la presenza nella minore di capacità cognitive adeguatamente sviluppate rispetto all’età cronologica e funzioni psichiche di base compatibili con la competenza a rappresentarsi correttamente la realtà e a riferirla, tuttavia si rilevano spunti di criticità e di rischio evolutivo, espressi attraverso i su indicati elementi inadeguati dal punto di vista contenutistico e formale, in relazione ad aspetti inerenti il rapporto con l’elemento paterno. Tali aspetti non consentono di poter considerare l’audizione fornita come compatibile con la possibilità da parte della minore di rendere testimonianza specifica sui fatti oggetto di causa».

Il perito e il CTU che cercano in questo modo di screditare la testimonianza dei minori che hanno subito abusi sessuali perdono la loro terzietà, sposano la causa del presunto abusante e se ne rendono complici.

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