LA SINPIA E LA PAS

La SINPIA è una società scientifica che raggruppa i medici specialisti in neuropsichiatria infantile; forse è la più importate società scientifica neuropsichiatrica infantile.

La PAS, oggi chiamata alienazione parentale, è la ormai ben nota, e famigerata, falsa malattia, la bufala di Gardner, la fake news diffusa da vari soggetti il cui unico scopo è quello di difendere e scagionare i padri dalle accuse di violenza in famiglia o di abusi sessuali sui figli minori.

Nel 2007 la SINPIA ha pubblicato le Linee guida sugli abusi nei confronti dei minori.
A pagina 10 è riportato quanto segue:
«Una ulteriore forma di abuso psicologico può consistere nella alienazione di una figura genitoriale da parte dell’altra sino alla co-costruzione nel bambino di una “Sindrome di Alienazione Genitoriale” (Gardner, 1984).»

Lasciando perdere per il momento tutte le polemiche sul concetto antiscientifico di PAS e sulla equivoca figura di Gardner, voglio ricordare ai colleghi della SINPIA che nell’ottobre 2012 il Ministro della Salute ha dichiarato che la PAS non ha alcun fondamento scientifico.

Sono passati quasi sei anni dalla dichiarazione del Ministro della Salute sulla non scientificità della PAS ma la SINPIA non ha ancora rimosso quella frase dalle sue Linee guida; la SINPIA non rende un buon servizio alla scienza continando a diffondere quella fake news.

Una ulteriore criticità sul rapporto tra la SINPIA e la PAS è rappresentata dalla presenza sul suo sito istituzionale di un documento anonimo che viene spacciato per un comunicato stampa della SINPIA e come tale ripreso in alcune CTU che hanno visto fortemente penalizzati i bambini che rifiutavano di incontrare il padre e condannate le madri perché ritenute causa di questo rifiuto.

Un esempio è il seguente dove la CTU ha fatto il copia-incolla del documento anonimo; il Tribunale è quello di Civitavecchia.


Queste autentiche scempiaggini, copia-incollate, sono entrate nel processo e hanno portato a questa sentenza.


Al di là delle autentiche sciocchezze scritte in questo documento anonimo, come già rilevato dal blog Infobigenitorialità, resta il fatto sconcertante della presenza sul sito istituzionale di una Società scientifica di un documento anonimo spacciato per un comunicato stampa della medesima Società scientifica; l’unica persona autorizzata a emettere comunicati stampa di una Società scientifica è il rappresentante legale della stessa, e cioè il suo Presidente, come si può vedere in questo comunicato stampa autentico che viene emesso su carta intestata della SINPIA e firmato dal Presidente o dall’Ufficio stampa.

Cosa ci fa un documento anonimo, spacciato per comunicato stampa, sul sito della SINPIA?
L’Ufficio stampa della SINPIA è stato occupato da qualche massone sostenitore della falsa malattia?

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IGNORANZA IN TRIBUNALE

Ignoranza è una dea minore scacciata dall’Olimpo per decreto unanime di tutti gli dei a causa dei danni ripetuti che provocava con le sue affermazioni; in suo soccorso arrivavano sempre le sue sorelle, Arroganza e Presunzione, che cercavano di difendere le sue idee ma senza successo, e pure loro furono scacciate dall’Olimpo.

Da allora le tre sorelle si aggirano tra gli umani cercando alloggio presso l’uno o presso l’altro; di recente sembrano allignare in una peculiare categoria di umani che si autodefiniscono psicologi giuridici, particolarmente esperti nell’inventare concetti privi di logica oltre che di un minimo di basi scientifiche.

L’ultima, in ordine di tempo di tali invenzioni, è quella che i genitori che cercano di proteggere i figli dalla violenze e dagli abusi sessuali dell’altro genitore avrebbero l’Io diviso.
“L’Io diviso” (titolo originale “The Divided Self”) è un libro scritto nel 1959 da uno psichiatra, e filosofo, inglese, Ronald Laing, pubblicato in Italia da Einaudi nel 1969 con il sottotitolo “Studio di psichiatria esistenziale”.

Laing è stato l’iniziatore di quella psichiatria comunitaria che ha dato a Basaglia lo spunto per la sua psichiatria anti-istituzionale; insieme a David Cooper, psichiatra sudafricano, Laing è considerato il fondatore del movimento dell’anti-psichiatria che ha preso le mosse dalla critica del concetto di follia come un qualcosa di biologicamente dato, la ‘malattia del cervello’, giungendo a considerarla come una peculiare modalità di essere nel mondo e di strutturare la propria presenza nel mondo, così costituitasi a partire dal primo nucleo di violenza e sopraffazione nella vita dell’individuo che è la famiglia.

Il libro più importante di Cooper si chiama proprio “La morte della famiglia”; scrive Cooper: «Le strutture alienanti della famiglia vengono riprodotte dappertutto: ufficio, scuola, università, chiesa, partito, esercito, ospedale. A loro volta, queste strutture sociali proseguono l’opera intrapresa dalla famiglia, che mira a produrre la “normalità” e le basi del conformismo».

Il concetto di ‘Io diviso’ è una vera e propria citazione del testo di Laing e rimanda, necessariamente, ai concetti dell’anti-psichiatria; ecco quello che scrive nella prefazione Letizia Jervis Comba, psicologa, moglie di Giovanni Jervis, psichiatra, tra i basagliani della prima ora.

«La famiglia, ancora istituzione, specchio e tramite di rapporti di potere, mezzo di esercizio della “violenza di pochi su molti”, non è struttura neutrale … Anche la famiglia si colloca in una struttura sociale determinata, in un contesto politico non generico bensì estremamente specifico, come specifica e unidirezionale ne è la violenza».

Siamo nell’ambito di una critica squisitamente marxiana della famiglia come struttura del patriarcato, e del patriarcato come stampella del capitalismo. Sono rimasto piacevolmente sorpreso, quindi, nel leggere quella citazione; vuoi vedere, mi sono detto, che gli psicologi giuridici stanno mettendo giudizio?

Ma la lettura dell’articolo mi ha deluso. Già dalla prima riga, si comprende che il fraintendimento è totale.

«Nelle dinamiche di Alienazione Parentale, alcuni genitori dominanti presentano un io diviso, dovuto ad una scissione interna buono/cattivo».

Mon dieu! Almeno il principio di non contraddizione: chi è dominante non può avere un Io diviso.

Le tre sorelle, Ignoranza, Arroganza e Presunzione hanno colpito ancora.

Tutti questi contorcimenti mentali degli psicologi giuridici per non prendere atto della realtà: il rifiuto del minore verso la relazione con un genitore è causata dalla violenza o dagli abusi sessuali di quel genitore sul bambino; finché la famiglia era unita il bambino era costretto a subire violenze e abusi, quando finalmente i genitori si separano il bambino sceglie il genitore protettivo. È così difficile da comprendere?

Se il genitore rifiutato non è stato capace, in corso di convivenza matrimoniale, di stabilire con i suoi figli un legame di attaccamento sicuro, è colpa dell’altro genitore? O è colpa di lui stesso, dell’omuncolo che è e che è sempre stato?

Insomma, questi omuncoli capaci solo di riaffermare il loro potere su moglie e figli con la violenza e con gli abusi quando si decideranno a crescere e diventare uomini?

E la psicologia giuridica fino a quando continuerà a essere l’ancella del patriarcato?

PS – Non ho messo, intenzionalmente, il link all’articolo citato, non mi è parso il caso. Chi voglia proprio leggerlo sa come cercarlo.

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IL ‘VERO’ AFFIDO CONDIVISO

Capita ancora di leggere in blog di associazioni di padri separati ma anche in giornali più titolati, di tradimento della legge 54/2006 perché i Tribunali non applicherebbero il ‘vero’ affido condiviso. Molti convegni vengono dedicati a questo concetto.

In cosa consisterebbe questo ‘vero’ affido condiviso che alcuni padri separati rivendicano con tanto clamore?

Dovrebbe consistere nella esatta divisione dei tempi che il figlio trascorre con i genitori separati; non è un caso che uno dei maggiori sostenitori di tale ‘vero’ affido condiviso sia un fisico. La situazione però è deflagrata loro tra le mani, come una sorta di fissione nucleare non controllata, tanto per richiamarsi alla fisica. O forse era proprio nelle aspettative di questi apprendisti stregoni.

Vediamo di capirci qualcosa.

La legge 54/2006 ha introdotto in Italia il concetto di affido condiviso stabilendo che dopo la separazione dei genitori i figli rimangono affidati a entrambi, salvo che il giudice intraveda motivi di pregiudizio per il minore derivanti dall’affido condiviso.

La legge 54 non ha previsto però in quale luogo fisico i figli in affidamento condiviso dovessero continuare a vivere; per chi l’ha votata, e per chi l’ha proposta, in primo luogo le associazioni di padri separati, era scontato che affidamento condiviso dovesse anche significare divisione in due metà esatte del tempo che ciascun figlio doveva trascorrere con ciascun genitore. Un retropensiero abbastanza trasparente ma anche abbastanza bastardo.

Cosa si nascondeva dietro questo retropensiero?

Un chiaro intento ritorsivo verso le ex-mogli poiché la ripartizione esatta dei tempi che i figli trascorrevano con ciascun genitore avrebbe fatto venir meno l’obbligo dell’assegno di mantenimento per i figli, di solito corrisposto dal padre alla madre; per non parlare poi dell’assegnazione della casa coniugale.

Ma già dalle prime sentenze post-legge 54 i giudici si sono posti il problema concreto del luogo fisico in cui i figli minori dovessero risiedere e la preferenza è stata sempre in favore della stabilità del domicilio dei minori nella casa coniugale; nella casa cioè dove i minori erano vissuti sino al momento della separazione dei genitori. Questo per ovvi motivi di buon senso, per non destabilizzare ulteriormente la psiche dei bambini, già traumatizzati per la separazione dei loro genitori; almeno li si lascia crescere nella casa ove ritrovano i loro principali riferimenti psico-affettivi, visto che la famiglia non esiste più.

Una delle prime sentenze post-legge 54 è quella di Bologna del 10 aprile 2006; in quella sentenza il Tribunale così si espresse:

«A ciò si aggiunga che nel mutato quadro normativo (art. 155 c.c. come novellato dall’art. 1, l. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 4, 2° co., l. 8 febbraio 2006, n. 54) il giudice deve valutare ‘prioritariamente’, e nell’interesse del figlio, l’affidamento del minore ad entrambi i genitori, affidamento al quale consegue non tanto una parificazione circa modalità e tempi di svolgimento del rapporto tra il figlio e ciascuno dei genitori, quanto piuttosto l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi i genitori e una condivisione delle decisioni di maggiore importanza».

Il Tribunale mostra con chiarezza che al concetto di affidamento condiviso consegue l’esercizio della potestà (oggi responsabilità) genitoriale da parte di entrambi i genitori e la condivisione delle decisioni di maggiore interesse per i figli ma non la parificazione matematica delle modalità di svolgimento del rapporto tra il figlio e ciascuno dei genitori.

L’ottusità mentale di alcuni padri separati riuniti in associazioni, la connivenza di alcuni avvocati e la complicità di alcuni CTU, ha di fatto svuotato il concetto di affido condiviso con la pretesa di farlo coincidere con la divisione matematica dei tempi di frequentazione genitori-figli; questo è secondo i padri separati il ‘vero condiviso’.

Il CTP di un padre separato, in una situazione di ampio diritto di visita del padre, è arrivato ad affermare che i tempi di frequentazione erano fortemente sbilanciati in favore della madre poiché i due minori dormendo a casa della madre trascorrevano con la madre più ore che con il padre, calcolando anche le ore di sonno. Davvero la follia di alcuni non ha limiti.

I padri separati non vogliono la condivisione della responsabilità genitoriale nell’interesse dei figli ma la divisione dei figli in due responsabilità separatamente esercitate nell’interesse dell’adulto, a volte contrastanti tra loro; così (caso reale) se la madre vuole iscrivere la figlia alla scuola di danza, come desiderato dalla bambina e come consigliato dal medico perché la bambina ha una scoliosi, il padre per contrariare la madre vuole invece iscriverla alla scuola di nuoto fregandosene del fatto che la bambina non vuole fare il nuoto ma soprattutto non tenendo conto che il nuoto non è indicato nel caso di scoliosi potendola fare peggiorare.

O un altro padre che ha fatto richiesta alla responsabile della classe frequentata da suo figlio di consegnargli la metà i soldi raccolti per il regalo di compleanno del bambino, perché lui aveva l’affido condiviso.

Questi sono certamente gli esempi estremi di questa follia che ha preso alcuni padri separati; ma purtroppo posizioni di questo tipo sono frequenti nelle associazioni di padri separati, vengono assecondate dai loro avvocati e sostenute dai CTU.

Sottoposta a pressioni di vario tipo e provenienti da soggetti non proprio limpidi sotto il profilo genitoriale (in varie associazioni di padri separati sono presenti soggetti con condanne penali definitive proprio per reati contro la famiglia) la giurisprudenza a volte si è mostrata ondivaga sulla questione, stabilendo tempi paritetici di frequentazione o addirittura escogitando soluzioni fantasiose come quella dell’alternanza dei due genitori nella casa coniugale in cui vivono i figli.

Per non parlare di linee guida in uso presso alcuni tribunali, suggeriti da una associazione di padri separati, e che prevedono procedure del tutto illegali.

«… le linee guida – oltre che disattendere i consolidati principî giurisprudenziali in materia – per alcuni profili si risolvono in una consapevole, dichiarata violazione delle leggi vigenti … Ad essere disapplicato è in primo luogo e soprattutto,l’art. 101, 2° cpv., Cost., sulla sottoposizione dei giudici solo alla legge … Ulteriore consapevole violazione di legge … è data dall’espressa esclusione dell’assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva di uno dei genitori». (Casaburi G, L’editto messapico. Il Foro Italiano, 2017).

Il cosiddetto ‘vero condiviso’ è quindi solo l’ennesima mistificazione dei padri separati e un espediente per continuare l’azione di stalking nei confronti delle ex-partner.

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AL CUORE NON SI COMANDA

Collegata alle questioni falsamente scientifiche dell’alienazione parentale, amnesia infantile, false memorie è quella dei cosiddetti incontri protetti o incontri in ambiente protetto o come altro diavolo li chiamano; si tratta nella sostanza della coercizione per il bambino a incontrare il padre con il quale rifiuta la relazione. La terapia della minaccia, nella sostanza.

Al di là della questione, di psicologia spicciola, evidentemente sconosciuta a certi soloni della psicologia giuridica, che la maniera migliore per far odiare una cosa a un bambino o a un adolescente è quella di imporgliela contro la sua volontà, c’è una questione ancora più grave.

L’imposizione al bambino di incontri in un ambiente protetto con il genitore rifiutato, comunque la si voglia denominare, oltre a non produrre il risultato atteso, e cioè quello di riavvicinare il bambino al genitore, spesso si rivela controproducente; difatti allontana ancora di più i due poiché questa imposizione viene vissuta dal bambino come ulteriore costrizione da parte del padre e dei suoi ‘alleati’ e quindi acuisce il suo rifiuto.

Agente del cambiamento, e cioè del miglioramento dei rapporti padre-figlio può essere solo il padre modificando il suo comportamento verso il figlio; imporre gli affetti per sentenza giudiziaria è uno di quei classici paradossi che la psicologia conosce bene e che sono altamente patogeni per la psiche. Per usare un luogo comune, “al cuore non si comanda”.

In maniera più tecnica, la prescrizione “sii affettuoso con tuo padre” è una prescrizione paradossale, analoga al famoso “sii spontaneo”. Se il bambino obbedisce a questa prescrizione deve necessariamente violarla, cioè non essere spontaneo; ma se il bambino si impone di essere spontaneo disobbedisce alla prescrizione, cioè non è più spontaneo. Intrappolato in questo paradosso il bambino si avvia gradualmente verso la strada della psicosi, come amplissima letteratura specialistica psicologica e psichiatrica ha dimostrato.

Mi riferisco agli studi e alle ricerche della psichiatria sistemica familiare la cui bibliografia è immensa. Mi limito a riportare:

– Watzlavick P, Beavin JH, Jackson DD, Pragmatica della comunicazione umana. Casa Editrice Astrolabio, 1971.
– Watzlavick P, Weakland JH, Fisch R, La realtà della realtà. Casa Editrice Astrolabio, 1974.
– Selvini Palazzoli M, Boscolo L, Cecchin G, Prata G, Paradosso e controparadosso. Raffaello Cortina Editore, 1975.
– Bateson G, Verso un’ecologia della mente. Adelphi edizioni, 1976.
– Watzlavick P, La realtà della realtà. Casa Editrice Astrolabio, 1976.
– Watzlavick P, Istruzioni per rendersi infelici. Saggi Universale Economica Feltrinelli, 2010.

Se si vuole far diventare psicotico un bambino la strada è proprio quella di intrappolarlo in paradossi del genere.

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MA LA PSICOLOGIA GIURIDICA ESISTE?

La domanda mi è venuta spontanea, come si suol dire, leggendo e ascoltando alcune esternazioni di coloro che si auto-definiscono psicologi giuridici. Hanno creato siti internet, blog, fondazioni, corsi di alta formazione, ecc, tutti ossessivamente declamanti la medesima giaculatoria: “L’alienazione parentale esiste”.

Ora, è questione di psicologia spicciola, questo reiterato reclamizzare, quasi una monomania delirante, la giaculatoria di cui sopra ha più l’aria di convincere se stessi prima di convincere gli altri su quello che vanno sostenendo.

Non solo; ci lasciano capire, in questo modo, che la psicologia giuridica trova la sua ragione di essere soltanto nell’esistenza della cosiddetta alienazione parentale, ex-PAS, e che senza di essa anche la psicologia giuridica cesserebbe di esistere.

La psicologia giuridica è quindi stata fondata alcuni anni fa solo per propagandare la PAS, (sindrome di alienazione genitoriale), ora alienazione parentale, e non per altri nobili scopi; dopo che la PAS è stata dichiarata priva di validità scientifica dal Ministro della Salute, per non correre il rischio di estinguersi la psicologia giuridica si è abbarbicata su questa nuova invenzione, l’alienazione parentale.

L’operazione PAS/alienazione parentale somiglia molto a quelle operazioni commerciali in cui un’autorità sanitaria dispone il divieto di vendita di un prodotto perché adulterato; il produttore lo ritira dal commercio e poi lo rimette in vendita cambiando solo l’etichetta. In casi del genere si parla di truffa, di frode commerciale. Nel caso che c’interessa potremmo parlare di truffa, di frode scientifica?

Per non correre il rischio di essere nuovamente smentiti a livello scientifico ne affermano ora l’esistenza a prescindere; un po’ come la scie chimiche, esistono, basta crederci e chi non ci crede è un complottista, o, come si esprimono loro, un negazionista dell’alienazione parentale.

Il termine ‘negazionismo’ ha un chiaro riferimento alla shoah e cioè a un fatto storico drammatico, l’olocausto degli ebrei a opera del nazismo; il suo uso perverso da parte dei sostenitori dell’alienazione parentale, dimostra l’assoluta mancanza di sensibilità umana, e di capacità di ragionamento logico, di questi soggetti poiché anche nell’ipotesi di reale e concreto condizionamento di un bambino a opera di un genitore, ci troveremmo, nel singolo caso giudiziario, di fronte a un reato, il maltrattamento psicologico del minore (art. 572 CP) e non a un fatto storico verso il quale vi possano essere posizioni negazioniste.

Reato che, come tutti i reati previsti dal codice penale, necessita, perché se ne affermi l’esistenza in quello specifico caso giudiziario, di prove concrete e incontrovertibili, al di là di ogni ragionevole dubbio, e non di petizioni di principio.

Difatti, un conto è affermare che i reati (es. furto, rapina, omicidio) esistono, altro conto è dimostrarlo nello specifico caso giudiziario. Così, un conto è affermare che un condizionamento psicologico di un figlio è possibile, altro è dimostrarlo nel processo. Credo che nessun giudice condannerebbe una persona senza la prova che quella persona sia responsabile del fatto-reato che le viene imputato.

Naturalmente, loro assumono quale prova dell’avvenuto condizionamento il rifiuto che talvolta alcuni figli mostrano verso la relazione con un genitore; e qui dimostrano ancora una volta, la loro scarsa capacità di ragionare logicamente, oppure la loro clamorosa malafede.

Il rifiuto può essere la conseguenza di un condizionamento psicologico ma non è la sua prova, la sua dimostrazione; questo tipo di ragionamento, quello cioè di invertire i termini logici del discorso, di ritenere la conseguenza di un fatto come prova di quel fatto, somiglia molto al tipico ragionamento dei deliranti che assumono l’identità di due proposizioni sulla base dell’identità dei predicati e non dei soggetti.

Un tipico esempio è il seguente:

Io sono un uomo;
Napoleone è un uomo;
io sono Napoleone.

È chiaro a tutti noi che le due proposizioni (‘io sono un uomo’ e ‘Napoleone è un uomo’) sono differenti perché differente ne è il soggetto; il predicato però è il medesimo (‘un uomo’). Nel delirio, ma anche nel sogno, nel pensiero pre-logico dei bambini, nell’inconscio, le due proposizioni vengono assunte come identiche sulla base dell’identità del predicato, e così uno si convince di essere Napoleone.

Nel caso della cosiddetta alienazione parentale il ragionamento che gli psicologi giuridici (non so quanto consapevolmente e quanto in malafede), e i padri separati (questi ultimi in sicura malafede) fanno è il seguente:

Il figlio rifiuta il padre;
il rifiuto è la prova del condizionamento;
chi ha condizionato il figlio è la madre.

Un’azione (l’atto del rifiutare) che può essere la conseguenza di un fatto (il presunto condizionamento) viene assunta come prova del fatto stesso; l’errore logico, il corto circuito logico, è quello di scambiare la conseguenza per la prova.

Un ragionamento corretto, sotto il profilo logico è invece il seguente:

Il bambino rifiuta il padre;
il rifiuto può essere la conseguenza di un condizionamento psicologico
ma può essere anche la conseguenza dei comportamenti del padre.
Abbiamo elementi concreti che dimostrino il condizionamento?
Abbiamo elementi concreti che dimostrino che il padre
ha dei comportamenti incongrui verso il figlio
che portano quest’ultimo a rifiutarlo?

L’analisi da svolgere nella eventuale CTU è proprio di questo tipo, un’analisi causale, per riprendere una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, spesso citata a sproposito dai professionisti che sostengono l’alienazione parentale (cosiddetta sentenza Cozzini); in quella sentenza i Giudici della Cassazione hanno ribadito il principio giuridico, oltre che logico, per il quale un evento trova la sua motivazione in una molteplicità di cause.

Dico eventuale CTU perché se i giudici si attenessero a quelli che sono principi giuridici consolidati, nei casi di rifiuto non ci sarebbe bisogno di disporre alcuna CTU; si tratta di questioni giuridiche da risolvere, magari complesse, ma sempre di natura giuridica e non psicologica. Accertare i fatti è compito della Giustizia, non della Psicologia sia pure giuridica.

In questi anni la psicologia giuridica non ha fatto altro che falsificare la realtà, dapprima enfatizzando come scientifica una presunta malattia (la PAS) che scientifica non era (e non lo dico io ma, autorevolmente, lo ha dichiarato il Ministro della Salute nel 2012); poi manipolando l’informazione con l’affermare che non più di PAS si doveva parlare ma di alienazione parentale, lasciando però inalterata la sostanza della questione; poi dicendo che anche se l’alienazione parentale non è descritta nel DSM-5 vi è presente sotto forma di spirito; poi affermando che è distribuita nel DSM-5 tra varie categorie diagnostiche; poi “ma chi se ne frega del DSM-5”.

Ma la Giustizia ha bisogno di questa Psicologia?

Una psicologia alla quale difetta proprio il logos, e cioè il pensiero razionale, la capacità di ragionare in base alla logica.

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LA CARTA DI NOTO – V PARTE

È venuto ora il momento di analizzare criticamente i singoli punti del documento, dopo le critiche alla premessa.

1) al primo punto si parla degli esperti e delle altre figure coinvolte nella raccolta della testimonianza del minore che debbono possedere competenze specifiche. Qui bisogna intendersi per bene e scoprire le insidie nascoste in questo concetto.

La prima insidia sta proprio nel termine esperto: chi ha conferito al cosiddetto esperto la qualifica di esperto? Sulla base di quali criteri?

In tema di accertamenti peritali (CTU o perizia) il tipo di esperienza che viene richiesta al perito è soprattutto l’esperienza clinica, quella cioè che si acquisisce dopo anni di lavoro con i pazienti, sia ospedaliera (l’aggettivo clinico rimanda a kliné, il letto del malato) sia ambulatoriale; è solo l’esperienza clinica quella che fa di un medico, o uno psicologo, un esperto nel suo campo di competenza.

Come scrive il prof. Fornari «in ambito psico-forense occorre non confondere le evidenze scientifiche che emergono dagli strumenti diagnostici di volta in volta utilizzati con il metodo seguito, perché solo questo e non certo l’uso di uno strumento piuttosto di un altro offre garanzia di “scientificità” all’elaborato peritale. Ancora una volta la clinica è sovrana con un’attrezzatura mentale sua propria» (Fornari U, Trattato di psichiatria forense, pag. 636. UTET Giuridica, 2015).

E veniamo al secondo requisito: l’esperto e le altre figure professionali coinvolte nella raccolta della testimonianza del minore debbono possedere competenze specifiche; lapalissiano.

Come si acquisiscono queste competenze specifiche? Con l’aggiornamento continuo, gli eventi formativi, i master, ecc.

Ma se i docenti di questi eventi formativi che dovrebbero fornire competenze specifiche sono quegli stessi professionisti che diffondono falsità scientifiche (PAS o alienazione parentale, amnesia infantile, false memorie, ecc.) quali competenze possono mai acquisire i discenti? Acquisiranno competenze su falsità scientifiche che poi vengono riversate nelle CTU e nelle perizie e che diventano verità giudiziaria. Di seguito alcuni esempi tratti da relazioni peritali.

Si tratta di due diversi professionisti, che compaiono tra i firmatari della Carta di Noto IV, che si sono espressi sul medesimo caso, ovvero un caso di presunto abuso sessuale; ovviamente, archiviazione, bambina costretta a incontrare il padre, madre alienante, ecc. Per fortuna nessun giudice ha disposto l’invio in comunità, nonostante le ripetute istanze del padre, ma è stato mantenuto il collocamento dalla madre; prosegue, però, la tortura degli incontri protetti, la psicoterapia obbligatoria, ecc. Il tutto partendo da una falsità scientifica e cioè che la bambina fosse una smemorata e quello che diceva le fosse stato detto dalla madre.

Di fronte a queste falsità scientifiche gli Ordini professionali nicchiano; ma possibile che i giudici non abbiano nulla da rilevare? Che i Presidenti dei Tribunali non ritengano di richiamare gli iscritti agli Albi dei periti e dei consulenti tecnici a un maggiore rigore scientifico pena la cancellazione dagli Albi medesimi? Che i Rettori delle Università dove questi professionisti hanno incarichi di insegnamento non ritengano di revocarli a fronte delle falsità scientifiche diffuse e insegnate agli studenti?
E i signori Ministri, rispettivamente della Giustizia, dell’Istruzione e della Salute, non hanno proprio nulla da dire?

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LA CARTA DI NOTO – IV PARTE

Nella terza parte ho dimostrato che uno dei teoremi della psicologia giuridica, e cioè che i bambini non avrebbero memoria (quella che loro chiamano amnesia infantile) è totalmente privo di qualsiasi fondamento scientifico; tutti gli studi dimostrano il contrario.

Adesso vediamo di parlare dell’altro loro teorema, i cosiddetti falsi ricordi o false memorie.

La frase incriminata del loro più recente documento è la seguente: “È probabile che eventuali vuoti nel ricordo siano colmati con elementi coerenti con l’avvenimento oggetto del ricordo inferiti da informazioni disponibili, per quanto non direttamente percepiti durante l’esperienza originaria.

Non parlano più esplicitamente di false memorie, si sono fatti più attenti, usano delle circonlocuzioni, si servono della comunicazione persuasiva, ma il senso è sempre lo stesso: i bambini sono suggestionabili, sui bambini possono essere impiantate con facilità false memorie.

Su che cosa basano questo secondo teorema? Sul nulla. Esiste in giro un loro studio che risale al 2004, svolto in una classe di scuola elementare su 53 bambini; ma è privo di validità scientifica tanto che nemmeno loro lo citano più.

In pratica, nella classe si presentò uno sperimentatore dicendo di essere un giornalista che rivolse alcune domande ai bambini e svolgendo con loro alcuni giochetti; dopo una settimana un’altra sperimentatrice si è presentata nella scuola dicendo che il giornalista aveva smarrito la registrazione e che quindi voleva ricostruire l’evento con l’aiuto del bambini, ponendo loro domande suggestive. Risultò che solo il 15% dei bambini aggiunse dei particolari di fantasia; risultato che viene da loro fortemente enfatizzato per dimostrare che i bambini nella ricostruzione di un evento possono introdurvi degli elementi di fantasia. Omettono però di dire che nell’85% dei casi i bambini non hanno aggiunto alla ricostruzione dell’evento alcun elemento di fantasia.

Se ne dovrebbe dedurre che quando i bambini riferiscono di violenze o abusi sessuali sono, evidentemente, credibili, nell’85% dei casi.

Ma dimenticano di riferirsi alla letteratura internazionale che dimostra una cosa fondamentale: è possibile indurre in alcuni casi il falso ricordo di episodi tutto sommato plausibili, ma non è possibile, in nessun caso, indurre il falso ricordo di un evento non plausibile, come ad es. quello di un abuso sessuale subito nell’infanzia.

Uno degli studi più significativi in tal senso è quello di Pedzek e Hodge.

Le autrici si sono proposte di studiare la possibilità di impiantare false memorie mediante la descrizione a due gruppi di bambini di due eventi veri e di due eventi falsi che loro avrebbero vissuto all’età di quattro anni.

Come falsi eventi da descrivere ai bambini sono stati scelti un evento plausibile (essersi persi in un supermercato) e un evento non plausibile (aver subito un clistere).

Dallo studio è risultato in primo luogo che la maggioranza dei bambini (54%) non ha ricordato nessuno dei due falsi eventi; che alcuni bambini si sono lasciati suggestionare dal racconto, ricordando di essersi persi in un supermercato da piccoli (evento plausibile) ma nessuno ha ricordato di aver subito un clistere (evento non plausibile).

Le autrici concludono che la possibilità di impiantare false memorie nei bambini è legata alla plausibilità dell’evento e ciò sarebbe in relazione alla presenza in memoria di uno script sulla precedente conoscenza di quel tipo di evento (es. per averne sentito parlare anche se occorso ad altri bambini), mentre è risultato che non è possibile impiantare nei bambini la falsa memoria di un evento non plausibile (nello studio l’aver subito un clistere da piccoli).

Credo che questo studio faccia piazza pulita del teorema della psicologia giuridica sulle false memorie per il quale la testimonianza del bambino vittima di abusi sessuali viene screditata sulla base della presunta facile suggestionabilità dei bambini.

Si deve pertanto ritenere che la testimonianza dei bambini sulle violenze, dirette o assistite, e sugli abusi sessuali subiti siano veritiere sino a prova di falso; tale prova di falso non può essere la PAS o alienazione parentale, non può essere il problema relazionale, non può essere la teoria del rifiuto immotivato del minore. Né possono esserlo altre loro invenzioni, come l’adattamento alla situazione della CTU di test (LTPc, aIAT, ecc) nati originariamente per misurare altre variabili; solo spazzatura pseudoscientifica.

Nei post successivi analizzerò i singoli punti del documento Carta di Noto IV.

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LA CARTA DI NOTO – III PARTE

Come accennato nella seconda parte, nel suo lavoro sulle memorie traumatiche precoci Gaensbauer riporta casi clinici personali e casi di altri autori, con abbondanza di riferimenti bibliografici. Esamina la memoria precoce sulla base dell’età anagrafica dei bambini esaminati. Riporto testualmente alcuni paragrafi di questo importante lavoro.

Memoria da zero a due mesi

Nelle prime settimane di vita il bambino è capace sia di provare una reazione di stress sia di associarla in maniera condizionata a uno stimolo collegato in modo tale da influenzare successivi comportamenti. Riporta questo caso clinico riferitogli da una madre:

«Quando il suo bambino di 3 giorni aveva difficoltà ad allattare, un’infermiera molto aggressiva gli ha tenuto la testa forzandolo ad aprire la bocca, per mettergli il seno della madre in bocca. Il bambino si è sconvolto, aveva conati di vomito, e inarcava la schiena per allontanarsi dal petto della mamma. A questo punto, la balia, che indossava una caratteristica divisa rosa con cuori “rosa fosforescente”, è stata chiamata e ha lasciato la stanza. Quando è ritornata 10 minuti dopo, la madre ha riferito che il bambino “ha visto chi era” e immediatamente ha inarcato la schiena e ha spinto contro il corpo della madre con le gambe con così tanta forza da rotolarsi sul letto.»

Memoria da tre a sei mesi

«Uno studio notevole della conservazione in memoria in questo periodo è quello di Perris, Myers e Clifton. All’età di 6,5 mesi un gruppo di bambini è stato esposto a un test in laboratorio che richiedeva di allungare la mano verso un oggetto che suonava nel buio. I bambini hanno mostrato di ricordarsi quando sono stati esposti a una situazione di stimolo simile due anni dopo, dimostrato dall’allungamento della mano con sempre più successo e una maggiore tolleranza della situazione sperimentale rispetto a gruppi di controllo senza esperienza.»

E ancora:

«Un bambino, ripetutamente e gravemente maltrattato dal suo padre biologico tra l’età di 3 e 10 settimane prima di essere stato affidato, ha mostrato delle reazioni di paura verso gli uomini per molti mesi. Durante il primo mese in affidamento quando suo padre adottivo o suo fratello adottivo adolescente si avvicinavano a lui, piangeva inconsolabilmente. La madre adottiva ha notato anche che trasaliva se lei involontariamente faceva dei gesti improvvisi verso di lui ad esempio mentre gli cambiava il pannolino. Anche se queste reazioni sono diminuite all’interno della famiglia adottiva, a sei mesi quando un maschio adulto che somigliava fisicamente al padre ha tentato di prenderlo in braccio trasaliva immediatamente e iniziava a gridare. A otto mesi durante una visita medica quando il dottore ha fatto un gesto affettuoso con l’intenzione di accarezzargli la testa il bambino ha trasalito così bruscamente che il medico è rimasto sconcertato. Tranne per qualche trasalimento casuale questo tipo di reazione non è mai stato osservato durante una interazione con una donna adulta.»

«Terr ha descritto una bambina che ha subito degli abusi sessuali prima dell’età di sei mesi che poco prima dell’età di tre anni ha fatto una serie di ricostruzioni sessuali con le bambole compresa la penetrazione vaginale, compatibili con delle foto pornografiche scattate durante il suo abuso sessuale.»

Memoria da sette a diciotto mesi

«Bauer e Wewerka sono giunte alla conclusione che “non è necessario nel momento in cui viene vissuto un evento che ci sia disponibile una codificazione verbale per far sì che l’evento venga ricordato a lungo termine o che successivamente il ricordo dell’evento venga esposto verbalmente”. Altri ricercatori hanno documentato che il linguaggio si può sovrapporre su precedenti memorie preverbali. Un esempio drammatico è la relazione di Myers, Clifton e Clarkson di una bambina di quasi tre anni che durante una visita in laboratorio ha indovinato l’immagine dietro ad uno pannello. L’ultima volta che aveva visto l’immagine era stato due anni prima quando aveva 40 settimane di età.»

«All’età di 23 mesi un bambino che era stato coinvolto in un grave incidente stradale a nove mesi, è riuscito a rappresentare usando bambole e giocattoli la sequenza dell’incidente, compreso come era stata colpita la macchina, come si era rovesciata e poi atterrata. Un altro bambino che all’età di 13 mesi era stato portato su un’ambulanza al pronto soccorso per via di un overdose di droga, a 26 mesi ha fatto una rappresentazione di certi dettagli specifici del viaggio in ambulanza e del trattamento al pronto soccorso. Il terzo caso coinvolgeva un ragazzo che era stato gravemente abusato sia fisicamente sia sessualmente da suo padre durante un periodo di una settimana, all’età di 7 mesi. Quando aveva 8 anni, durante una seduta di terapia con il terapista e sua madre adottiva, all’improvviso il bambino è entrato in uno stato delirante e dissociato durante il quale ha drammaticamente ricreato con il suo proprio corpo l’esperienza dell’abuso. Questo comprendeva, urlare dalla paura, dimenarsi a terra con il sedere in aria, cercare di trascinarsi sotto il divano per scappare dal terapista (che in quel momento stava vivendo come se fosse suo padre), e usare le parole per descrivere come gli stava facendo male. Il quarto caso era quello di una bambina che a 12 mesi aveva visto sua madre uccisa da una lettera esplosiva. Sia con le azioni sia con i giocattoli, ha ricreato delle rappresentazioni di diversi elementi importanti dell’accaduto, durante una valutazione all’età di 4 anni e mezzo. Quando le è stato chiesto come era morta sua madre, è improvvisamente caduta a terra e si è rotolata in modo frenetico. Più avanti ha improvvisamente portato giù la mano su uno scenario di gioco che ricreava la situazione appena prima dell’esplosione, buttando giù bambole e mobili con un gesto che riusciva a cogliere delle qualità fondamentali dell’esplosione. A 6 anni, durante una seduta di terapia con un altro terapista e alla presenza dei genitori adottivi, la bambina ha fornito ulteriori dettagli verbali sull’aspetto di sua madre dopo la bomba, un dato di cui i suoi genitori non erano a conoscenza ma che è stato successivamente confermato dalla polizia.»

Memoria da diciotto a ventiquattro mesi

«Tante ricerche e prove cliniche hanno documentato l’abilità dei bambini tra l’età di 18 mesi e 2 anni, una volta che hanno raggiunto la fluenza verbale, a percepire, ricordare e poi descrivere degli eventi vissuti. Nelson, Fivush e i loro colleghi hanno dimostrato in numerosi studi che l’esordio della memoria autobiografica, come tradizionalmente viene concettualizzata, si osserva intorno a questa fascia d’età. Molte relazioni cliniche hanno documentato la presenza di ricordi duraturi degli eventi traumantici in bambini di questa età che sono verbalmente fluenti. Usher e Neisser hanno dimostrato che si possono ricordare alcuni eventi affettivamente significativi che accadono nel secondo anno di vita, quale la nascita di un fratello o un ricovero in ospedale anche fino all’età adulta.»

Credo ce ne sia abbastanza per destinare in discarica certa spazzatura pseudo-scientifica. Nella quarta parte l’analisi della teoria della suggestionabilità dei bambini.

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LA CARTA DI NOTO – II PARTE

Come già detto nella prima parte, in questa seconda parte mi propongo di analizzare il contenuto del documento Carta di Noto IV.

Il sottotitolo riporta: Linee guida per l’esame del minore.

Primo problema: le linee guida vengono proposte dalle maggiori società scientifiche per ciascuna disciplina medica sulla base delle evidenze scientifiche più aggiornate, corredate della bibliografia più significativa che ha consentito di formulare le linee guida medesime, con indicazione degli studi clinici che hanno consentito di pervenire a quei suggerimenti clinico-terapeutici. A mero titolo di esempio riporto il link alle linee guida per il trattamento precoce della schizofrenia.

Nel documento proposto mancano del tutto i requisiti indispensabili per definire un documento come linea guida; più avanti viene definito come protocollo che fa propri i principi delle linee guida nazionali. Se è un protocollo perché sottotitolarlo come linee guida? Si tratta di due cose diverse.

Il documento si apre con queste parole:

«La memoria non è una riproduzione precisa degli eventi percepiti in quanto essa è un processo dinamico e (ri)costruttivo. Il processo mnestico è molto sensibile alle influenze esterne che possono interferire a livello della codifica, del consolidamento e/o del richiamo. Gli effetti dei processi di costruzione della memoria autobiografica assumono una particolare rilevanza nei bambini, a causa della loro maggiore suggestionabilità, della loro dipendenza dal contesto ambientale e dalla difficoltà nel corretto monitoraggio della fonte di informazioni (esperienza vissuta, assistita o narrata).»

Riferimenti bibliografici circa queste affermazioni? Zero. Studi clinici? Meno di zero. Dovremmo credere loro sulla parola.

Ancora più problematico il secondo periodo:

«È probabile che eventuali vuoti nel ricordo siano colmati con elementi coerenti con l’avvenimento oggetto del ricordo inferiti da informazioni disponibili, per quanto non direttamente percepiti durante l’esperienza originaria. L’amnesia infantile può essere totale, prima dello sviluppo del linguaggio (primi due anni di vita), o parziale, nel periodo in cui il bambino non ha ancora acquisito piena competenza linguistica (sino ai tre anni e mezzo circa). In ogni caso, i ricordi riferiti a questa fase evolutiva, per essere considerati accurati e credibili, devono essere corroborati da riscontri indipendenti ed estrinseci.»

È probabile in che misura? Dieci per cento? Mille per cento?

L’amnesia infantile (ancora questo concetto!!) può essere totale nei primi due anni di vita? Non mi risulta che i bambini sino ai due anni di età siano degli smemorati.

Una volta per tutte: il concetto di amnesia infantile è stato introdotto da Freud. Con questo concetto Freud si riferiva alla tipica amnesia che, nelle persone adulte, riguarda gli anni della prima o primissima infanzia. Mai Freud ha scritto che riguarda la eventuale mancanza di memoria dei bambini. Questa è una vera e propria falsità scientifica sulla base della quale i bambini che denunciano abusi sessuali, o violenze, non vengono creduti; questa falsità scientifica entra nelle sentenze e diviene verità giudiziaria. Ma sempre falsità scientifica rimane. Non so se ai giudici vada bene far diventare verità giudiziaria le falsità scientifiche.

Sull’amnesia infantile, comunque, mi sono già espresso; rimando pertanto a quello scritto. Aggiungo solo che il sito citato, quello sulla testimonianza del minore non esiste più; che si siano resi conto che pubblicavano delle bufale? A ogni buon conto è archiviato sul webarchive, l’ultimo snapshot è del 27 marzo 2015.

Se si parla di esame della testimonianza del minore è chiaro che si parla di minori vittime di violenza o di abusi sessuali; il tipo di memoria implicato in questi ricordi non coincide esattamente con la memoria autobiografica, cioè il ricordo di eventi personali non traumatici.

Uno dei massimi studiosi delle memorie precoci traumatiche è il prof. Theodore J. Gaensbauer; in un suo articolo del 2002 riporta le sue esperienze cliniche con i ricordi traumatici di bambini a partire dall’età neonatale. Rimando alla terza parte per la descrizione di questo importante lavoro sulle memorie traumatiche precoci.

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LA CARTA DI NOTO – I PARTE

Sta circolando in rete un documento sottoscritto da alcuni psicologi, tre-quattro avvocati e un giudice di Cassazione, intitolato Carta di Noto IV.

Premettendo che documenti di questo tipo non hanno alcuna valenza prescrittiva o normativa, come chiarito da alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione, non si può non rilevare che tra i firmatari si ritrovano alcuni tra i più accaniti sostenitori della falsa malattia, la bufala di Gardner, il medico che fu soprannominato “autentico mostro americano”, il difensore della pedofilia da lui ritenuta la normalità, un’antica tradizione, addirittura.

Si tratta di quel Richard Alan Gardner che nel 1985, proprio per via della sua teoria della PAS, venne espulso dalla Columbia University di New York, dove era solo un medico volontario non remunerato (leggere in fondo all’articolo la correzione aggiunta al necrologio), senza alcun incarico di insegnamento o di diagnosi e cura, con la motivazione che era ignorante nella disciplina di psichiatria e incapace di ragionare secondo il metodo scientifico; motivazione che si riverbera necessariamente su chi ha sostenuto la PAS e sostiene adesso l’alienazione parentale.

Ritrovare quindi tra i firmatari di questo documento, che si propone di fornire delle linee guida, sia pur prive di valore prescrittivo, per l’esame del minore vittima di abusi sessuali gli stessi che sostengono ancora, contro ogni evidenza scientifica, contro il parere del Ministro della Salute, contro ogni logica e buon senso, la teoria della PAS o alienazione parentale, non può non far sorgere più di qualche dubbio sulla validità del documento stesso proprio sul piano scientifico.

È di tutta evidenza, difatti e come ripetutamente scritto, che la mera enunciazione teorica, sganciata dai fatti oggetto del processo, della possibilità che il minore nel fare le affermazioni che fa e nell’esprimere il rifiuto verso la frequentazione con un genitore al momento della separazione dei suoi genitori, possa essere condizionato o manipolato psicologicamente dall’altro genitore (quella che loro chiamano alienazione) non equivale alla dimostrazione concreta e oggettiva di tale presunto condizionamento. Ma è questo che loro scrivono nelle CTU e sostengono nelle memorie processuali; si assiste al paradosso giudiziario per cui al genitore accusato di violenze o abusi sessuali viene garantita la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio mentre al genitore accusato di manipolazione viene garantita la certezza di colpevolezza a prescindere, e la condanna dopo un giudizio sommario.

Così come è di tutta evidenza che la presenza del rifiuto del minore non è affatto la prova del condizionamento o manipolazione psicologica (che loro chiamano alienazione) ma tuttalpiù ne è la sua conseguenza; la prova deve essere prodotta con i mezzi propri del processo. Non si riesce proprio a comprendere, sul piano logico-razionale, perché dalla presenza del rifiuto si debba presumere il condizionamento e non si possa presumere, cosa molto più logica e naturale, che il rifiuto sia espressione della paura che il bambino ha del genitore rifiutato. Naturalmente a questo punto sarebbe d’obbligo spendere qualche riga sulla concezione del padre quale pater familias, di derivazione del Diritto romano e che evidentemente ancora informa i moderni codici e la psicologia inconscia di alcuni magistrati; ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.

Così come è ancora di tragica evidenza che l’utilizzo di tali concetti porta alla manipolazione dei processi, nei quali una falsità scientifica (la PAS o alienazione parentale e più di recente il disturbo relazionale) diviene verità giudiziaria che non segue più la procedura stabilita dai codici ma si incammina sulla via dell’abuso e dell’arbitrio.

Fatta questa doverosa premessa passo a valutare la tenuta scientifica del documento; ciò sarà oggetto della seconda parte.

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